Inizio: Un signore di mezza età...
Ambientazione: in una stanza vuota
Prompt: spari, vestito elegante, gatto randagio, cena
Dal racconto di Elio: coppia amorosa
INVITO A CENA
di Prisca Amaro
Un
signore di mezza età aveva picchiettato l’uovo sodo contro il tavolo e sul
guscio si era formata una crepa.
L’aveva
poi stretto nel palmo e massaggiato tra le mani, così che il guscio si era
screpolato in più sezioni, tanto da ricordare quello di una tartaruga.
Ogni
pezzo tolto veniva fatto cadere nel piatto; risuonavano come monete infilate in
un salvadanaio.
Ecco,
si era scordato il portafogli a casa.
Matteo
aveva lasciato i propri amici al ristorante, era uscito per strada
ripercorrendo parte del marciapiede su cui aveva camminato per raggiungere il
locale.
Era
stata Elena a sceglierlo: un ristorante silenzioso, ovattato e con vettovaglie
rosse e bianche.
Li
avevano scambiati per tifosi con quelle sciarpe colorate che portavano intorno
al collo.
-
Bella la partita? - aveva esordito il cameriere, penna e taccuino alla mano.
Non sapeva di che partita si trattasse, ma ai clienti faceva sempre piacere
essere presi in considerazione.
-
Partita? È questa sera? Ele, te l’avevo detto che era questa sera!
-
Richi, no. È domani: fidati che se fosse oggi non ci sarebbero così tanti
uomini fuori a cena.
La
discussione era andata avanti a tal punto che il cameriere se n’era andato per darci
più tempo per decidere.
Poi
Matteo aveva visto il tipo con l’uovo.
Si
era tastato i pantaloni, aveva cercato nella giacca e aveva capito di aver
dimenticato il portafogli.
E,
ora, continuando a camminare lungo il marciapiede, si rese conto che non si
ricordava da che parte avevano girato per raggiungere quel posto. Eppure erano
arrivati a piedi, quindi non poteva essere troppo lontano.
C’era
una bella differenza tra lui e il gatto randagio sul muretto: quel gatto,
avrebbe potuto vagare senza meta, come in effetti è naturale che sia, ma
avrebbe mostrato più sicurezza di lui che una meta ce l’aveva.
Una
ragazza lo colpì al braccio, e non prese nemmeno il disturbo di scusarsi.
Era
in compagnia, un gruppo bello grande. E ciò che non disturba il gruppo è come
se non disturbasse il singolo.
Non
si era fermato a protestare, non era il tipo, e poi non gli aveva fatto male.
Si
era voltato però, a guardarla.
Capelli
lunghi e biondi che spuntavano da sotto un berretto di lana nero con un decoro
lungo il bordo. Piccoli riccioli sulle punte e una treccia sottile che scendeva
dalla nuca.
Carlo
si era fatto le treccine. Una miriade di treccine che teneva legate in una
coda.
Matteo
non avrebbe potuto: capelli troppo corti e poca voglia di lasciarli crescere.
-
Mmh? - qualcuno l’aveva chiamato, ma si fermò per girarsi solo dopo altri due
passi.
Riprese
a camminare, le spalle ricurve per proteggere il collo dagli spifferi,
probabilmente aveva sentito male.
Imboccò
una stradina e con un piede entrò in una pozzanghera.
Iniziò
a scuoterlo e rialzò il bordo del pantalone finendo solo per peggiorare la
situazione: alcune gocce d’acqua sporca gli caddero sul calzino bianco e un
brivido freddo gli percorse la gamba.
Avrebbe
potuto fregarsene, e lasciar pagare i suoi amici per quella volta. Invece si
era preso su, convinto che sarebbe tornato a casa in un batter d’occhio.
Probabilmente
gli stavano facendo tenere la cena in caldo. O forse avevano mangiato e si
erano portati via le sue ordinazioni.
-
È un vicolo cieco.
Prima
ancora di capire che non era stato lui stesso a pronunciare quella frase, si
rese conto della cosa in sé.
Immerso
in quei pensieri non si era accorto di aver fiancheggiato una palazzina di tre
piani, con una fila verticale di mattoni sbeccati lungo le finestre di destra.
A guardarli bene gli ricordavano degli spari a ripetizione: bang, bang, bang.
Una decina di volte, o forse più.
Percorse
gli spari immaginari un paio di volte, poi si girò a guardare chi l’aveva
richiamato all’attenzione.
Strizzò
gli occhi dietro le lenti degli occhiali, mettendo a fuoco la figura in abiti
eleganti.
-
Ciao.
-
Ciao, - rispose, mostrando un lieve sorriso. - Ero passato da te per invitarti
a cena, ma ho visto che ci aveva già pensato qualcun altro.
-
A quanto pare. - disse, dando un colpo di tosse prima di proseguire. - Ma ho
scordato a casa il portafogli.
Luca annuì e calò un silenzio
che sembrò durare troppo a lungo.
- Cosa ci fai da queste
parti?
- Aspettavo tornassi a casa,
magari ero ancora in tempo per proporti un dessert. E ti ho visto sparire
dietro queste case. - disse, indicandole. - Non hai mai avuto un gran senso
dell’orientamento.
- A dire il vero sono in
tempo anche per l’antipasto.
- È un sì al mio invito?
Matteo annuì.
+
Luca
si era dovuto trasferire e ancora non aveva svuotato gli scatoloni. Entrando,
si metteva piede in una stanza vuota con un paio di candele dallo stelo lungo a
illuminarla, posate su un tavolo piccolo e rotondo. Matteo si era seduto su una
delle due uniche sedie presenti e aspettava.
-
Ho lasciato un messaggio a nome tuo al ristorante, - gli disse, tornando dalla
camera. - Avevo bisogno di vederti. - Luca si avvicinò alla sedia, si slacciò i
bottoni della giacca elegante e si sedette.
-
E che avrei lasciato detto ai miei amici?
-
Niente di particolare.
Matteo
si strofinò il volto passandosi le dita sotto le lenti degli occhiali, che si
alzarono come un’altalena sbilenca.
-
Sono stanco di scomparire, sono stanco di tutti questi sotterfugi. Te l’avevo
già detto, mi sembra.
-
Lo so, per questo ti ho invitato a cena.
-
Ma come tuo solito c’è qualcosa sotto. Sono stufo di bugie, lo sai.
-
È solo una chiamata, Matteo. Una volta uscito di qui potrai raccontar loro come
stanno le cose…
- Quali cose? Di noi due o che sono invitato a una cena nascosta?
Luca
sembrò pensarci su. Raddrizzò le posate, riposizionò il bicchiere e posò lo
sguardo sulle due candele. Poi incrociò gli occhi di Matteo e sorrise.
-
Temo che una delle due possibilità implichi automaticamente l’altra.
Matteo
aveva mantenuto un’espressione corrucciata, le labbra erano rimaste socchiuse e
le mani stringevano il bordo del tavolo.
Luca
aveva iniziato a lisciare la tovaglia.
-
Se dici che ti hanno aspettato sotto casa e invitato, - ricominciò. - Ti
toccherà comunque dire da chi. - Gli sorrise nuovamente.
-
Quindi dovrò mentire, di nuovo.
-
Perché vuoi dire di noi, Matte? - Gli aveva già posto questa domanda, ma questa
volta nel tono non sembrava pregarlo di non farlo.
-
Perché si mente sulle cose che si sanno sbagliate. O che si credono sbagliate.
E io ho capito che questa non lo è.
Luca
annuì.
Matteo
aveva intrecciato le mani in grembo, forse dopo avrebbe preso anche lui a
lisciare la tovaglia con le dita, ma per il momento rimase a fissare Luca,
corrucciato nei propri pensieri.
-
Mangiamo, ti va?
Matteo
aveva fame, in fondo aveva saltato la cena.
Provò
a rispondere qualcosa, ma alla fine si limitò ad annuire a propria volta.
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