domenica 24 febbraio 2013

Invito a cena, di Prisca Amaro

EFP
Inizio: Un signore di mezza età...
Ambientazione: in una stanza vuota
Prompt: spari, vestito elegante, gatto randagio, cena
Dal racconto di Elio: coppia amorosa

INVITO A CENA
di Prisca Amaro


Un signore di mezza età aveva picchiettato l’uovo sodo contro il tavolo e sul guscio si era formata una crepa.

L’aveva poi stretto nel palmo e massaggiato tra le mani, così che il guscio si era screpolato in più sezioni, tanto da ricordare quello di una tartaruga.

Ogni pezzo tolto veniva fatto cadere nel piatto; risuonavano come monete infilate in un salvadanaio.

Ecco, si era scordato il portafogli a casa.

Matteo aveva lasciato i propri amici al ristorante, era uscito per strada ripercorrendo parte del marciapiede su cui aveva camminato per raggiungere il locale.
Era stata Elena a sceglierlo: un ristorante silenzioso, ovattato e con vettovaglie rosse e bianche.
Li avevano scambiati per tifosi con quelle sciarpe colorate che portavano intorno al collo.

- Bella la partita? - aveva esordito il cameriere, penna e taccuino alla mano. Non sapeva di che partita si trattasse, ma ai clienti faceva sempre piacere essere presi in considerazione.

- Partita? È questa sera? Ele, te l’avevo detto che era questa sera!

- Richi, no. È domani: fidati che se fosse oggi non ci sarebbero così tanti uomini fuori a cena.

La discussione era andata avanti a tal punto che il cameriere se n’era andato per darci più tempo per decidere.
Poi Matteo aveva visto il tipo con l’uovo.
Si era tastato i pantaloni, aveva cercato nella giacca e aveva capito di aver dimenticato il portafogli.
E, ora, continuando a camminare lungo il marciapiede, si rese conto che non si ricordava da che parte avevano girato per raggiungere quel posto. Eppure erano arrivati a piedi, quindi non poteva essere troppo lontano.
C’era una bella differenza tra lui e il gatto randagio sul muretto: quel gatto, avrebbe potuto vagare senza meta, come in effetti è naturale che sia, ma avrebbe mostrato più sicurezza di lui che una meta ce l’aveva.
Il punto era semplice: quel gatto non rischiava di perdersi.
Una ragazza lo colpì al braccio, e non prese nemmeno il disturbo di scusarsi.
Era in compagnia, un gruppo bello grande. E ciò che non disturba il gruppo è come se non disturbasse il singolo.
Non si era fermato a protestare, non era il tipo, e poi non gli aveva fatto male.
Si era voltato però, a guardarla.
Capelli lunghi e biondi che spuntavano da sotto un berretto di lana nero con un decoro lungo il bordo. Piccoli riccioli sulle punte e una treccia sottile che scendeva dalla nuca.
Carlo si era fatto le treccine. Una miriade di treccine che teneva legate in una coda.
Matteo non avrebbe potuto: capelli troppo corti e poca voglia di lasciarli crescere.

- Mmh? - qualcuno l’aveva chiamato, ma si fermò per girarsi solo dopo altri due passi.

Riprese a camminare, le spalle ricurve per proteggere il collo dagli spifferi, probabilmente aveva sentito male.

Imboccò una stradina e con un piede entrò in una pozzanghera.
Iniziò a scuoterlo e rialzò il bordo del pantalone finendo solo per peggiorare la situazione: alcune gocce d’acqua sporca gli caddero sul calzino bianco e un brivido freddo gli percorse la gamba.
Avrebbe potuto fregarsene, e lasciar pagare i suoi amici per quella volta. Invece si era preso su, convinto che sarebbe tornato a casa in un batter d’occhio.
Probabilmente gli stavano facendo tenere la cena in caldo. O forse avevano mangiato e si erano portati via le sue ordinazioni.

- È un vicolo cieco.

Prima ancora di capire che non era stato lui stesso a pronunciare quella frase, si rese conto della cosa in sé.
Immerso in quei pensieri non si era accorto di aver fiancheggiato una palazzina di tre piani, con una fila verticale di mattoni sbeccati lungo le finestre di destra. A guardarli bene gli ricordavano degli spari a ripetizione: bang, bang, bang. Una decina di volte, o forse più.
Percorse gli spari immaginari un paio di volte, poi si girò a guardare chi l’aveva richiamato all’attenzione.
Strizzò gli occhi dietro le lenti degli occhiali, mettendo a fuoco la figura in abiti eleganti.

- Ciao.

- Ciao, - rispose, mostrando un lieve sorriso. - Ero passato da te per invitarti a cena, ma ho visto che ci aveva già pensato qualcun altro.

- A quanto pare. - disse, dando un colpo di tosse prima di proseguire. - Ma ho scordato a casa il portafogli.

Luca annuì e calò un silenzio che sembrò durare troppo a lungo.

- Cosa ci fai da queste parti?

- Aspettavo tornassi a casa, magari ero ancora in tempo per proporti un dessert. E ti ho visto sparire dietro queste case. - disse, indicandole. - Non hai mai avuto un gran senso dell’orientamento.

- A dire il vero sono in tempo anche per l’antipasto.

- È un sì al mio invito?

Matteo annuì.

+

Luca si era dovuto trasferire e ancora non aveva svuotato gli scatoloni. Entrando, si metteva piede in una stanza vuota con un paio di candele dallo stelo lungo a illuminarla, posate su un tavolo piccolo e rotondo. Matteo si era seduto su una delle due uniche sedie presenti e aspettava.

- Ho lasciato un messaggio a nome tuo al ristorante, - gli disse, tornando dalla camera. - Avevo bisogno di vederti. - Luca si avvicinò alla sedia, si slacciò i bottoni della giacca elegante e si sedette.

- E che avrei lasciato detto ai miei amici?

- Niente di particolare.

Matteo si strofinò il volto passandosi le dita sotto le lenti degli occhiali, che si alzarono come un’altalena sbilenca.
- Sono stanco di scomparire, sono stanco di tutti questi sotterfugi. Te l’avevo già detto, mi sembra.

- Lo so, per questo ti ho invitato a cena.

- Ma come tuo solito c’è qualcosa sotto. Sono stufo di bugie, lo sai.

- È solo una chiamata, Matteo. Una volta uscito di qui potrai raccontar loro come stanno le cose…

- Quali cose? Di noi due o che sono invitato a una cena nascosta?

Luca sembrò pensarci su. Raddrizzò le posate, riposizionò il bicchiere e posò lo sguardo sulle due candele. Poi incrociò gli occhi di Matteo e sorrise.

- Temo che una delle due possibilità implichi automaticamente l’altra.

Matteo aveva mantenuto un’espressione corrucciata, le labbra erano rimaste socchiuse e le mani stringevano il bordo del tavolo.
Luca aveva iniziato a lisciare la tovaglia.

- Se dici che ti hanno aspettato sotto casa e invitato, - ricominciò. - Ti toccherà comunque dire da chi. - Gli sorrise nuovamente.

- Quindi dovrò mentire, di nuovo.

- Perché vuoi dire di noi, Matte? - Gli aveva già posto questa domanda, ma questa volta nel tono non sembrava pregarlo di non farlo.

- Perché si mente sulle cose che si sanno sbagliate. O che si credono sbagliate. E io ho capito che questa non lo è.

Luca annuì.
Matteo aveva intrecciato le mani in grembo, forse dopo avrebbe preso anche lui a lisciare la tovaglia con le dita, ma per il momento rimase a fissare Luca, corrucciato nei propri pensieri.

- Mangiamo, ti va?

Matteo aveva fame, in fondo aveva saltato la cena.
Provò a rispondere qualcosa, ma alla fine si limitò ad annuire a propria volta.

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