Ambientazione: in una valle
Prompt: bufera di neve, zucca, friabile, ciarpame
Dal racconto di Elio: tulipano
FRIABILE
di Prisca Amaro
Quando
avevo due anni mi portavo sempre dietro un pupazzetto a forma di zucca. Era
abbastanza grande da riempirmi il grembo, e lo strizzavo tra le braccia per non
farlo cadere.
Si
chiamava Cuca.
Non
ricordo affatto tutte queste cose, a quell’età gli altri vivono la vita al
posto tuo: siamo estranei a noi stessi.
La
neve è friabile, si rompe sotto i miei piedi. Imprimo un altro passo e guardo
avanti a me: bianco. Una sterminata valle bianca che si unisce al cielo carico
di altra neve.
Solo io potevo farle il bagno: aprivo la lavatrice, la infilavo nel cestello e aspettavo. Stavo davanti all’oblò a contare i giri ripetendo i numeri da uno a dieci tante di quelle volte da pronunciarne anche solo l’inizio: un, du, tre, qua…
Di
solito mi stancavo prima che finisse la centrifuga, ma appena sentivo il trillo
della lavatrice correvo a prendere Cuca e la portavo ad asciugarla.
Le
fonavo il ciuffetto verde e poi le tiravo la faccia per non saltare nemmeno un
punto.
Cuca
si scolorì in fretta, e ora nemmeno so dove si trova.
Mamma
e papà pensano sia stata persa durante un trasloco, altre volte dicono che l’ho
dimenticata al parco, altre ancora sembra sia stata sbrindellata dal cane dei
vicini.
Ora
è così vecchio che ogni volta vederlo bere o mangiare mi mette ansia, in genere
mi giro dall’altra parte per non doverlo stare a guardare.
Devo
dire che è un effetto dell’anzianità, questo, perché non riesco a stare da sola
a tavola con mia nonna: sento i denti digrignare, forse mastica la dentiera che
sta su per miracolo.
La
guardo, e penso alla confusione che si ritrova in testa: spesso le sento
raccontare cose che hanno a che fare con un altro presente.
Riluce
di un chiarore grigiastro che mi infastidisce gli occhi; guardo lontano in
cerca di forme indistinte, ma da quelle parti nessuno gioca mai, perché non ci
sono ripari abbastanza vicini nel caso capiti una bufera di neve.
Decido
di tornare indietro, mi volto piano e cerco, come i lupi, di rimettere i piedi
nelle stesse orme lasciate all’andata. Non è così semplice, barcollo e poi
cado.
Punto
le mani e mi metto a carponi, sento qualcosa di rigido sotto tutti quei
fiocchi. Li sposto a grandi manciate, formo cumuli attorno a me fino a vedere
qualcosa di un rosso acceso.
Lo
scopro del tutto e affusolato si alza: un tulipano.
I
petali sono chiusi a turbante e lo stelo è leggermente incurvato.
Scavo
ancora, in cerca del prato verde, mi muovo come un cane che deve sotterrare i
suoi trofei.
Il
tulipano non sboccia e sembra essere solo. Le mie mani sono perse in
tutto quel freddo, ormai è come se non fossero più mie.
Le
vedo tirare il gambo del fiore, provano a strapparlo, ma questo si allunga come
una corda. All’altro capo deve esserci attaccato qualcosa, perché pesa.
Pesa
enormemente.
Non
sempre sa quel che dovrebbe, e allora mi chiedo cosa ci sia dietro ai suoi
occhi.
Una
fitta nebbia che le offusca le più banali cose.
Lo
stelo è finalmente finito, perché quello che si porta appresso è rimasto
incastrato e non riesce a emergere. Con una mano lo tiro a me, mentre con
l’altra ricomincio a scavare.
Più
vado a fondo e più le mani mi si sporcano, non è terra, non è sabbia. È
ciarpame, cose futili che sanno solo occupare spazio.
Arrivo
alla fine e lo vedo: lo stelo è bloccato dentro una crepa. Cerco di allargarla,
la rompo come un biscotto e poi tiro.
Non
porta niente con sé.
Non
è altro che un ricordo mai esistito.
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